Mai avrei immaginato di inserire tra le etichette di questo blog la parola TEATRO.
Pregiudizio? Ignoranza? Entrambe!
Pregiudizio nei confronti di un’arte che conosco troppo poco e di cui non mi sono quasi mai interessato.
Il motivo principale per cui ieri, giovedì 15 maggio, mi sono recato al Teatro Sociale di Como era infatti per vedere e ascoltare, da bravo fan, la mia Saretta su un palco inedito per lei: quello di un teatro, appunto.
E alla fine ne sono uscito con una valanga di stimoli in più che si possono riassumere in un’unica, grezza, espressione:
“Ah, ma il teatro si fa così?! Fichissimo!”
Sarah Cappelletti alla voce e
Luca Schiavo alla chitarra hanno commentato/interagito/sostenuto jazzisticamente l’ottima
Elisa Carnelli, unica attrice del dramma
DOPO DI ME IL NULLA scritto e diretto dal sorprendente
Jacopo Boschini.
Un monologo spezzato a tratti dal dialogo con la voce fuoricampo di
Stefano Dragone.
Elisa nella parte della moglie maltrattata, la voce di Stefano nella parte del marito maltrattatore.
Tema: la violenza sulle donne. Lo sapevate che il 30% delle donne in Italia subisce abusi fisici e/o psicologici?
ORA, la tematica mi interessava ma, fottuti pregiudizi, ero pronto a sorbirmi il solito mattonazzo socio-impegnato di denuncia iper-didascalico: mille contenuto, zero narrazione. Un COSA da 1 tonnellata rovesciato sopra un COME da 1 grammo.
Che va bene, per carità. Le coscienze vanno smosse, i fatti vanno denunciati, ecc…
Ma io, da ostinato fumettista, difendo a spada tratta la luccicante carrozzeria dell’INTRATTENIMENTO che nasconde nelle viscere del suo motore il CONTENUTO: non tutti sono esperti meccanici, ma il motore c’è. Se vuoi alzare il cofano per ammirarlo, bene. Se no, ti ho regalato una STORIA che ti dimenticherai tra un giorno, un anno, una vita.
E invece il sorprendente Jacopo mi sorprende: dopo un inizio di riscaldamento, in cui l’attrice si presenta e presenta la sua situazione di moglie sottomessa, al 15° minuto tutto “collassa” e lo spettacolo decolla. Improvvisamene non vola una mosca in sala (800 persone). L’attrice ci prende per le palle uno a uno (e perdonate la metafora). Si parte…
La moglie non descrive ma “rivive” insieme al pubblico tutto quello che ha subito, senza patetismi né didascalismi, buttandotelo in faccia con tono vissuto ma distaccato, contestualizzando ogni singolo episodio di violenza fisica e psicologica (la peggiore) in un conto alla rovescia fatto di flashback, situazioni e azioni che portano dritti fino alla catarsi finale.
Una STORIA, per quanto pseudo-biografica e dal taglio documentaristico, che ti trascina per i capelli fino alla fine.
Una discesa agli inferi nella vita matrimoniale di una finta coppia che si regge sul precario e pericolosissimo equilibrio vittima/carnefice, maso/sado, buono/cattivo.
Con lei in overdose da Sindrome di Stoccolma e lui incarnazione metafisica di Mengele. La scelta di estromettere LUI dal palco e ridurlo a mera voce è infatti efficacissimo: il suo è un male simbolico, spersonalizzato, perfettamente coerente col non-visto che permea tutto il dramma.
È un tipo di violenza nuova per me, in bilico tra il Racconto e la Rappresentazione: perché il testo, prima, e l’attrice, poi, giocano proprio sulla “recitazione della violenza”, sulla messa in scena teatrale del
racconto del
ricordo della
violenza.
Unico, disperato, appiglio della protagonista, e di noi poveri spettatori, è la sua amica/mentore/sostegno
Betty Boop, nome d’arte di una cantante americana in pensione che ha passato tutta quella violenza prima di lei. Una sorta di saggia alter-ego, non a caso interpretata dalla stessa attrice, che cerca di farle aprire gli occhi, di smuoverla, di spingerla a ribellarsi.
La catarsi finale c’è e la frase di chiusura è perfetta (+ o – suona così: “da sola mi perderò nel nulla, ma è il
mio nulla…e lo riempirò come voglio
io”) ma il pubblico è turbato e spiazzato, non si aspettava qualcosa dai toni e contenuti così forti. Attori, musicisti, scenografe (ottima l’idea delle scatole!) e regista sono costretti a uscire tre volte sommersi dagli applausi, che sono certamente sentiti ma suonano anche come sfogo liberatorio per i 60 minuti passati all’inferno. (60 minuti che io ho vissuto davvero intensamente, complice anche la mia infausta posizione nel teatro: ultima balconata all’estrema sinistra, in piedi, in bilico sul baratro di 30 metri che mi separava dai vip in platea…mi sentivo un po’ come i corvi di “Opera”)
Ma, d’altronde, se tratti di orto-botanica parlerai di sementi e fertilizzanti, se tratti di violenza alle donne parlerai di calci al ventre e cinghiate sulla spina dorsale. Perché è questo che succede nella realtà, in alcune realtà. Ed è tutto quello che Sandra&Raimondo non ti dicono.
Ok, ora tolgo il cappello da critico che mi sta scomodissimo e vi chiedo scusa (un po’ a tutti, massì). Perché non ho sicuramente reso l’idea di questo spettacolo e forse mi sono scritto un po’ addosso. Andrebbe semplicemente visto.
E io aspetto con ansia la replica…