
Niente, la scuola horror spagnola batte il resto del mondo 1-0.
Non solo per film medi (
Fragile), buoni (
Tesis,
Labirinto del Fauno,
Orphanage) e ottimi (
The Others,
Rec) accanto a discrete cagate, per quanto mi riguarda, degli stessi registi e produttori (
Nameless,
Semana Santa,
La Spina del Diavolo…), ma anche e soprattutto perché di Scuola si tratta. Per stile, tematiche, tecnica.
Gli spagnoli sono bravi, hanno storie da raccontare, hanno fatto loro un genere ormai morto e sepolto in più parti del mondo. E lo fanno qui e ora, senza remake né nostalgie del passato (no, non sono mai stato un fan dell’horror/erotic-horror spagnolo ’70-’80 dei vari
Jess Franco,
Amando De Ossorio, eccetera).
L’horror orientale mi annoia da tempo, non mi spaventa, anzi mi infastidisce molto il volume a palla ogni volta che appare un baby-fantasma (che è un po’ come far esplodere un sacchetto gonfio d’aria vicino all’orecchio: alla terza volta che lo fai ti picchio, mentre al terzo film non vado più al cinema) e da anni è vittima della sua stessa sovrapproduzione...a quando i remake orientali dei remake americani degli originali orientali?
Il new horror francese mi piace ma quasi esclusivamente per lo stile (
Aja su tutti, che poi l’hanno comprato gli americani, che poi è la fine che stanno facendo anche gli altri).
L’horror americano, salvo rare felici eccezioni (
Rob Zombie e pochi altri), si basa ormai da anni su remake di film orientali (…), remake di horror storici di casa loro (
Amityville,
Omen,
Halloween…) oppure prendono i faccioni patinati del momento, meglio se sexy come Jessica Alba o Halle Berry, e li ficcano in film inconsistenti che vai a vedere solo per faccioni e corpaccioni.
L’horror italiano...bè, non tornerà più come la stagione dell’amore di Battiato.
La scuola spagnola invece è forte e competitiva, perché sì alcuni registi vengono risucchiati da Hollywood (
Guillermo Del Toro coi suoi
Hellboy, blockbuster-horror per famiglie) ma molti continuano a lavorare, o lavorano
anche, in patria (Del Toro stesso per The Orphanage stesso, qui in veste di produttore e talent scout).
Cosa significa? Significa che in Spagna si producono e girano horror validi e di successo, che girano il mondo, e alimentano così una bella factory nazionale che permette sia ad autori affermati che esordienti di lavorare.
Se in Italia vuoi fare il regista e uscire nelle sale ti tocca trattare temi esplicitamente sociali o mettere la parola “amore” nel titolo, altrimenti addio.
Sia chiaro: in Italia abbiamo grandissimi registi e talenti, che io adoro, ma in questo post parlo squisitamente di horror. Gli ultimi due film de paura italiani che ho visto son stati
Ghost Son di
Lamberto Bava (brutto a 360°) e
Il Nascondiglio di
Pupi Avanti (l’ho apprezzato per idea e atmosfera, ma a Casa le Finestre se la Ridono in modo imbarazzante. Anche per questa battuta).
C’è una cosa, però. L’horror ha spesso due livelli di lettura: Paura e Messaggio.
Spesso e volentieri questi due livelli sono inscindibili, a volte invece c’è solo il terrore fine a sé stesso (
Rec ne è l’esempio recente più lampante). Il bello dell’horror è che i suoi fruitori lo apprezzano indistintamente sia in un caso che nell’altro. Provate invece a togliere il messaggio da un film di
Muccino…fa cagare comunque, ok, ma gli americani non l’avrebbero mai assunto per fare altre cagate come
La ricerca della felicità (sono questi i registi che ci comprano, ma forse è meglio, così ce li leviamo dalle palle).
Comunque sia: perché in Italia per parlare di disagio e diversità infantile ci vuole la faccia di Kim Rossi Stuart in un film impegnatissimo (e bellissimo) come
Le Chiavi di Casa del pluri-premiato
Gianni Amelio, mentre in Spagna si possono trattare gli STESSI temi ma attraverso un horror ben fatto, tesissimo, che sta incassando in tutto il mondo e per giunta di un esordiente? Perché non siamo (più) capaci di farlo anche noi?
THE ORPHANAGE di
Juan Antonio Bayona (il talento scoperto da Del Toro, come si diceva sopra) è appunto un buon horror sotto entrambi i livelli di lettura. E' uno dei rari esempi in cui il Come va a braccetto col Cosa: racconta bene una storia (di paura) abbastanza originale.
Situazioni e atmosfere sono state viste e metabolizzate mille volte (orfanotrofio abbandonato, tragedia del passato che ritorna, presenze infantili inquietanti) ma qui rigurgitate e gestite in maniera impeccabile. C’è della gran maniera, certo. Il genere horror conta ormai quasi solo sul Come (ho già nominato il termine “remake”?...). Ma l’originalità di questo film sta nel Messaggio e nella sua Struttura Narrativa, così intrinsecamente inscindibili da formare un unico, interessante, Cosa. The Orphanage è un “horror con bimbi” costruito attorno a ciò che di più vicino e caratteristico hanno i bimbi: il GIOCO. Da qui la Paura, da qui il Messaggio.
SPOILER.
In questo senso il prologo è una dichiarazione d’intenti. La protagonista, da bambina, gioca a 1,2,3 stella nel parco dell’orfanotrofio con gli altri bimbi, cioè conta fino a 3 rivolta a un albero e poi si volta: chi coglie muoversi perde. Il tutto a camera ferma, inquadratura unica, i bimbi entrano in campo man mano, senza che lei riesca a coglierli mentre si muovono…e infatti raggiungono e toccano l’albero e lei perde.
Struttura: i bambini giocano, non conoscono altro modo per esprimersi e comunicare tra loro e col mondo esterno.
Messaggio: gli adulti non li ascoltano e non danno peso alle loro stupide fantasie, soprattutto se si tratta di bambini con problemi fisici e psicologici.
Detta così non sembra la trama di un film social/impegnato italiano?
E invece no: bimbo deforme, maschere, insopportabili angoli bui, scalinate che scricchiolano, inquietanti presenze, macabri segreti…e il pubblico in sala rimane ammutolito fino alla fine, saltando sulla poltrona di tanto in tanto ma non sempre (altrimenti: noia giapponese). Questo significa tenere alta l’attenzione dello spettatore. Che in quelle condizioni, pensa un po’, può anche recepire più forte e chiaro il messaggio dell’autore. Oppure non gliene frega niente e se la spassa lo stesso. Questo è il bello dell’horror.
E così la sventurata protagonista, l’orfanella del prologo ora madre adottiva a sua volta di un orfanello, per giunta affetto da aids e amici immaginari (!), deve ritrovare il suo piccolo sparito kafkianamente dopo mezz’ora di film, dopo cioè che ci siamo affezionati a entrambi e al loro rapporto fatto di gioie e incomprensioni, e pensiamo che il film vada da tutt’altra parte, tipo “vedo la gente morta” e alla fine il bambino strano risolve tutto. La madre come ritroverà suo figlio? Giocando a 1,2,3 stella, nascondino e caccia al tesoro, no? Lo spettatore smaliziato lo capisce abbastanza presto, lo spettatore medio lo capisce insieme alla protagonista. Dovrebbe essere sempre così un buon horror, e infatti questo lo è. Dovrei dire che il regista gioca coi cliché del genere, ma visto che è una frase abusata dico: Bayona fa letteralmente giocare i personaggi del suo film e di conseguenza gioca con noi e i nostri nervi. Ecco.
FINE SPOILER.
Che tu abbia letto o no lo spoiler, ti dico che questo è un film intelligente perché fa suoi i meccanismi della suspense e del terrore e allo stesso tempo tocca corde piuttosto profonde. Per questo la paura, qui, è del tipo "pesante": perché sotto la superficie fatta di scricchiolii inquietanti e maschere grottesche l’orrore è vero e
credibile. Un horror fallisce quando crolla il patto narrativo con lo spettatore, quando cioè chi guarda non crede più a quello che gli viene mostrato e, di solito, ride invece di spaventarsi…brutto, eh?
La grande Geraldine Chaplin, qui nei panni di una medium, dice:
“Non devi vedere per credere. Devi credere per vedere”.E tutto ciò confezionato nella veste stra-collaudata e digeribilissima della moderna ghost-story. Come dire: il modello di vestito è sempre quello, ma t’ho fatto un taglio talmente su misura che non solo ci starai comodissimo ma ti sembrerà pure nuovo.
E c’è pure un occhio allo stile di ripresa più trendy degli ultimi anni, siore e siori, quello del finto reality, tutto concentrato (citato?) nella bella scena della medium: telecamere piazzate in tutte le stanze dell’orfanotrofio e la medium che va in trance e passeggia per la casa vedendo cosa successe 30 anni prima…lo vede solo lei, mentre noi vediamo attraverso i vari monitor solo le sue terrorizzate e terrorizzanti reazioni. Questo è ciò che io chiamo Raccontare.
QUASI-SPOILER. Il finale è perfetto, proprio perché lavora egregiamente sui due livelli di cui sopra. È tanto atroce e quasi insostenibile nella rivelazione del mistero che ha occupato 2/3 del film, quanto rassicurante nella sua morale (che in realtà ha occupato tutto il film). Impossibile? No. Andate a vederlo. E poi pensate a Kim Rossi Stuart.
Ripeto! Adoro i nostri grandi registi impegnati, sono loro che stanno (ri)lanciando il nostro cinema vincendo premi e facendo discutere molto, dicendo così a tutti, anche alla casalinga di Voghera, che non esiste solo Boldi che prende ceffoni in faccia e urla “bestia che dolore!”
Però, dai, perché non può formarsi un dignitoso mercato parallelo di sano e autentico genere italico? Perché ci è rimasta solo la Commedia? Perché mi devo aggrappare disperatamente a
Romanzo Criminale di
Placido (ottima anche la serie tv)?
Perché, insomma, non torniamo un po’ anche noi a giocare col cinema?
Cioè, si può riflettere anche cagandosi sotto (e così son sicuro di essere arrivato alla casalinga di Voghera).