giovedì 6 ottobre 2016

NEROne

Ho sempre avuto una fissazione per i titoli.
Non riesco a scrivere una riga se prima non trovo un titolo che rappresenti la storia che ho in mente. Anche se provvisorio, anche se brutto, anche se poi verrà sostituito in fase di editing da uno totalmente diverso.
Capita, per esempio, che "Il monco" si trasformi in "Come un cane" (e meno male).
Ho un debole per i titoli formati da parole chiave, come mi piace chiamarli. Meglio se una parola chiave e possibilmente con -almeno- un doppio significato.

AVATAR (Cameron): il corpo bio-sintetico che "indossa" il protagonista; l'incarnazione terrena del dio Visnu; l'immagine, vera o falsa, che metti sui tuoi social per crearti un'identità. Perfetto per un protagonista senz'arte né parte che prima indossa panni che non gli appartengono, poi prova ad essere l'eroe della parte sbagliata, infine diventa chi vuole essere.

FROM HELL (Alan Moore): l'incipit delle lettere spedite a Scotland Yard da uno dei tanti mitomani che nella Londra del 1888 si spacciavano per Jack lo Squartatore, ma anche "dall'Inferno" inteso come luogo, ossia ciò che era diventato il quartiere di White Chapel in quel periodo e, in generale, tutto l'Occidente da quel momento in poi secondo Moore.

UP (Pete Docter): Su! Letteralmente e col morale!

Avendo poi cominciato, inspiegabilmente, a pubblicare sia all'estero che in Italia a inizio carriera o quasi, mi posi subito il problema della traduzione dei titoli dei miei fumetti. Cioè, normalmente gli sceneggiatori si buttano subito su sottotrame e colpi di scena, io invece penso al titolo e alla sua papabile traduzione in francese e inglese ancora prima di stendere un soggetto...

Ebbene, ci sono vari modi per rendere un titolo trasversale e a prova di traduzione: utilizzare una lingua morta (il sanscrito "Avatara"), la lingua inglese che tanto sanno tutti (Pulp Fiction, Indipendence Day, Civil War) oppure il nome del protagonista. Mica puoi tradurre "Il curioso caso di Bengiamino Bottone".

Se poi il nome del protagonista evoca di per sé il contenuto o il tono delle sue avventure, come Martin Mistère, Flash Gordon o Tom Strong, ancora meglio.

E insomma, nel 2005 mi metto a pensare a un giallo da proporre in Francia insieme agli inossidabili bresciani Mutti e Bussacchini, e gira e rigira più penso al genere (perché di trama ancora nulla, figurati) più mi rimbalza in mente la parola "noir". Che tecnicamente indica quelle storie il cui protagonista è un cattivo, o comunque qualcuno non proprio ligio alla legge, ma in senso più ampio è finito per indicare quei gialli dalle tinte forti, cupe, sia nell'estetica che nei contenuti. Non storie rassicuranti, dal finale a tutti i costi positivo coi buoni che vincono e i cattivi che perdono.
E la volevo ambientata in Italia, un'altra mia fissa. Perché in italiano "nero" è una parola bellissima. Che può anche essere un cognome, al pari di Rossi e Bianchi.

Et voilà, il mio detective privato si sarebbe chiamato Giuliano Nero e la sua serie, semplicemente, "NERO". Che non puoi tradurre, toh.
E che richiama, ma solo a pochi-ma-buoni, uno dei romanzi più surreali di Sclavi: "Nero." (col punto, mi raccomando)

Cognome e genere felicemente riuniti in una sola parola, non mi restava che scrivere quelle che sarebbero poi diventate le tre storie dei tre volumi inizialmente pubblicati in Francia da Casterman, poi in Italia da Edizioni BD (i primi due volumi) e infine da Renoir in un'unica, gagliarda e possente edizione che li racchiude tutti e tre: NERO - L'INTEGRALE

Va che tavole (acquarelli, mica pizza e fichi):



La troverete a Lucca allo stand Renoir, insieme ai suoi autori per firme e disegnini, e poi nelle migliori librerie e fumetterie della penisola.
Il titolo è facile, non potete confondervi.

Flashback, 10 anni fa.

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